Se il 2016 è stato l’anno della legge-delega,
il 2017 l’anno dell’emanazione del
Codice e degli altri decreti legislativi ed il
2018 quella del suo perfezionamento (non
senza qualche fibrillazione derivante dalle
elezioni politiche), il 2019 è destinato ad
essere l’anno dell’avvio di diverse «trasformazioni
» del Terzo settore italiano.
Quasi sicuramente nel corso dell’anno
non sarà istituito il Registro unico nazionale
del Terzo settore e proseguirà il regime
transitorio; la legge di bilancio per
il 2019, probabilmente, costituirà l’occasione
per ulteriori cambiamenti e ripensamenti
da parte della politica. Tuttavia, fra
luglio ed agosto scadranno i termini
per l’adeguamento degli statuti delle
ODV, delle APS, delle Onlus e delle
imprese sociali. Da quel momento, si
potranno iniziare a misurare e valutare
alcune trasformazioni innescate
dalla riforma.
La prima. L’adeguamento degli statuti
è stato solo un processo “meccanico”
di sostituzione delle vecchie
clausole con quelle nuove obbligatorie
dettate dal legislatore, oppure si
è innescato, effettivamente, un percorso
di ripensamento della missione
degli enti, delle attività da compiere
per raggiungerla, delle modalità con
le quali le attività sono svolte, della
governance?
La risposta a questo quesito appare
fondamentale. Se, infatti, il processo
di modifica degli statuti sarà stata una
ordinaria, banale manutenzione dello statuto,
potremmo dire che la riforma ha fallito
uno dei suoi obiettivi.
Se, invece, ciascun ente avrà riaperto una
discussione seria sul progetto di cambiamento
della comunità che intende realizzare
e avrà compiuto lo sforzo di scegliere
liberamente una veste giuridica adeguata,
allora potremmo dire che il Terzo settore
è uscito rafforzato dalla “prova” della
riforma.
La seconda trasformazione di cui dovremo
prendere atto nel corso del 2019 riguarderà
il modo in cui ciascun ente svolgerà e
rendiconterà la propria attività. Il Codice
fissa alcuni “paletti” a garanzia di adeguati
livelli di trasparenza e pubblicità delle
attività svolte (dall’obbligo di utilizzare
una lingua comune per i bilanci di esercizio,
al bilancio sociale, alla pubblicità di
altri dati, ecc.). Ma essi non sono, in verità,
né troppo impegnativi né troppo indicativi
della realtà di fatto (il legislatore chiede
di pubblicizzare molti dati, ma spesso non
si chiede a quale fine e per chi…). La vera
sfida posta dalla riforma è, invece, quella
di valorizzare l’impatto sociale, chiedendo
a tutti gli enti non semplicemente di svolgere
attività di interesse generale, bensì di
svolgerle in modo tale da lasciare entro
la comunità di riferimento segni durevoli
e tangibili di cambiamento in positivo.
Ciò richiede che tale cambiamento sia
dapprima immaginato, poi realizzato effettivamente
ed infine misurato e reso
conoscibile a tutti i portatori di interesse:
donatori, utenti, istituzioni, cittadini, ecc.
Nel corso del 2019, dovrebbero vedere la
luce le linee guida per la realizzazione del
bilancio sociale, del bilancio di esercizio
e per la misurazione dell’impatto sociale.
Partecipare a questo processo trasformativo
sarà essenziale per tutti gli enti del
Terzo settore.
La terza trasformazione riguarda – a
mio giudizio – il volontariato. Nell’anno
nuovo dovremo riuscire a mettere
a fuoco questo tema, disciplinato
in forma non chiarissima nel Codice.
Al di là della definizione generale, infatti,
molti aspetti puntuali dello status del
volontario e dell’attività di volontariato
sono decisamente oscuri (dall’iscrizione
al registro dei volontari, al computo della
prevalenza dell’attività dei volontari
associati, ecc.). Eppure, la sfida vera non
è tanto quella interna alla riforma (cioè
della sua interpretazione o applicazione,
potremmo dire), bensì quella esterna: si
diffondono sempre di più nel nostro Paese
gruppi spontanei, costituiti da singoli
individui che liberamente si
incontrano, intraprendono azioni
solidaristiche, spesso ad alto tasso
di innovazione, ma che sfuggono
a qualsiasi qualificazione giuridica.
Leggere la loro attività attraverso
il Codice del Terzo settore fa apparire
quest’ultimo – nonostante
la sua giovane età – quasi vecchio
ed obsoleto.
Ecco, allora, che serve uno sforzo
creativo non piccolo per riuscire a
cogliere questi “germogli” di novità
e incrementare il numero di cittadini
attivi coinvolti nelle attività
di interesse generali in forme, fino
a qualche tempo fa, neppure immaginate.
Basti pensare agli effetti
delle piattaforme digitali.
Per una organizzazione come
AVIS, queste tre dimensioni sono tutte
presenti e si intersecano fra loro, determinando
la necessità di grandi scelte e, ad un
tempo, grandi opportunità.
Con una aggiunta significativa, mi pare:
AVIS nazionale è chiamata a farsi «rete associativa
nazionale», assumendo un ruolo
di infrastruttura a supporto delle attività
dei livelli territoriali che il Codice le attribuisce,
ed accompagnando i processi
di trasformazione che si sono descritti.
Per diffusione territoriale, capacità di mobilitazione
e attività di interesse generale
svolta, AVIS è candidata naturalmente a
costituire un modello ed un laboratorio
per l’intero Terzo settore italiano.